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Ecco l’Ovosodo Valley Piccola ma sta crescendo

  • Victor
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blankDi Mauro Zucchelli LIVORNO L’Ovosodo Valley è ancora un ovetto di passerotto qui da noi. L’Osservatorio toscano sulle imprese high tech – nato dal tandem fra l’ Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna e l’Unioncamere Toscana – ne censisce 83 nella nostra provincia (36 a Livorno città, tre a Collesalvetti). Certo, non saremo noi i battistrada se è vero che in tutta la regione ne sono catalogate 1.142 (e a Pisa ce ne sono più di 200).

Eppur qualcosa si muove: il dossier dice che è in provincia di Livorno è localizzato il 6,4% delle sedi aziendali (Grosseto, Massa e Pistoia fanno peggio di noi), il 6,6% del fatturato (siamo a metà classifica in Toscana), quasi l’8% degli addetti (cinque province fanno meglio di noi e quattro no). Segno che, insomma, non siamo proprio la “maglia nera”… In realtà, non si muove ma fa anche qualcosa di più. Parola di Simone Genovesi, neo-presidente del settore terziario innovativo di Confindustria che raggruppa 29 imprese («25 delle quali piccole o medie, con 330 addetti e un fatturato che sfiora i 39 milioni»). Quanto basta per farne già una “fabbrica” fra le più importanti della città: anzi, se aggiungiamo anche i big si finisce per arrivare a quota 1.200 occupati (inclusi, ad esempio, il centinaio di ingegneri del quartier generale di Enel che studia al Marzocco le reti intelligenti dell’energia). Aggiungendo poi: «Tutte imprese in crescita. Anche adesso, anche in mezzo a questa crisi che morde». È un arcipelago che non comprende solo la Kayser che manda in orbita bio-esperiemnti e da Popogna dialoga con la Stazione spaziale internazionale in orbita 400 km sopra le nostre teste. Solo per fare qualche esempio, l’identikit che ne fa Genovesi segnala la FlyBy che si «occupa di applicazioni che sfruttino l’ “occhio” satellitare per vedere l’inquinamento del mare, le acque più belle, la miglior tintarella, la maturazione delle uve per i vini ultrachic». C’è la Daxo dell’assessore uscente Darya Majidi: «lavora all’ “internet delle cose” con la tracciabilità Rfid che rappresenta una sorta di codice a barre evoluto che funziona come un telepass». C’è la Wondersys che, «sempre sul fronte della tracciabilità», lavora per banche tedesche e colossi della logistica. C’è la Generplus, che «ha sviluppato in Cina un euro-progetto di auto elettrica e presto ne porterà una flotta all’aeroporto di Pisa». C’è la ErredueGas che produce «grossi macchinari per immagazzinare idrogeno»; ci sono la Soing e la Geostudi che «nascono come società di ingegneria e fanno software per mappare il sottosuolo»; c’è la Lenovys, che fa consulenza in base a un metodo innovativo nato sulla scia del metodo Toyota; c’è la Leghorn che ha inventato la “e-ceralacca”, cioè «sigilli intelligenti per chiudere i contenitori»; c’è la UpLink, che fa web per le imprese, comprese piattaforme per e-commerce. L’elenco potrebbe continuare a lungo: con Techne (che fa georeferenziazione): con Marno (trattamento informatizzato di documenti, soprattutto ricette); con Chema (nel settore chimica verde); con It Store e Niux, con Rigel e E-Click, Ma.Vi., Sintecnica, Tonic, Datacom, il Polo Magona, Intel e numerose altre… «Il ruolo del terziario innovativo non è quello d’un fiore all’occhiello: bellino da guardare e stop», dice Genovesi. «È un catalizzatore d’innovazione che, da un lato, inietta competitività del settore manifatturiero e, dall’altro, evita che la ricerca universitaria resti solo un bel film di fantascienza», rincara Umberto Paoletti, direttore di Confindustria». È per questo che nella riforma del sistema confindustriale Livorno ha accelerato in questo campo collegandosi alle strutture consorelle fra la costa (con Pisa-Massa) e Firenze. Invece che per tecnologie, ecco che ci si aggrega per domanda: green economy, beni culturali, costruzioni “intelligenti” e le forme 2.0 di logistica e turismo. Genovesi ribalta la logica del trasferimento tecnologico che mira a travasare nell’attrività industriale i passi in avanti compiuti nei laboratori universitari: «Le nostre imprese valgono come “traduttori” perché sono un ponte che consente il passaggio delle informazioni non in una sola direzione: siamo anche il tramite per dire all’università quali sono le “domande” che dalla trincea della produzione chiedono ai ricercatori una risposta». È solo l’interscambio che fa crescere tutti quanti: anche perché, secondo Genovesi, c’è «bisogno di tirar fuori con più coraggio quel che sappiamo fare». E già che c’è rovescia anche un altro modello: «Ha fatto il suo tempo il modello di imprenditore che guarda alle altre aziende come nemici che potevano rubargli know how e clienti. Questa è l’era della collaborazione: abbiamo davanti a noi l’Oceano Blu delle opportunità e siamo solo agli inizi, guai se ci rinchiudiamo ciascuno a difendere il nostro piccolo orticello geloso».

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